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Dire di no

Perché ci risulta così difficile dire di no?!

Mi capita spesso di incontrare persone che hanno enormi difficoltà a dire di no, a negare la loro presenza quando richiesta e ciò le porta ad esaurirsi perché sono talmente accondiscendenti con gli altri da prosciugarsi eccessivamente delle proprie energie.
Queste persone, nel loro comportamento così estremo, si dimenticano che ogni volta che dicono di sì a qualcosa, dicono di no a qualcos’altro: e troppo spesso dicono di sì agli altri e di no a loro stessi…

Foto: Andy Tootell

Ad essere onesta quando qualcuno mi fa una richiesta, la mia risposta spontanea è “sì”: cerco di accogliere e esaudire i bisogni dell’altro.
C’è una parte di me che desidera in modo genuino essere di aiuto, e un’altra che, in modo più o meno conscio, ritiene che dire di no possa generare un conflitto, deludere le aspettative dell’altro, insomma compromettere il rapporto.
Riconosco quindi che dire di sì a volte non è una scelta libera, bensì corrisponde ad una difficoltà a dire di no…
In questi casi dire di sì è la risposta più facile, ma non è la risposta migliore.

Quando dire di sì diventa una scelta dettata dalla paura di essere giudicato in maniera negativa, di non piacere all’altro oppure la paura di deludere l’altro e il timore del conflitto…
Insomma, quando il mio sì non è autentico, il sì non è la risposta migliore.

Un ‘no’ detto con la più grande convinzione è migliore e ha più valore di un ‘sì’ pronunciato solamente per compiacere, o, cosa peggiore, per evitare dei problemi. -Mahatma Gandhi-

Come fare per affrontare in modo più equilibrato questa situazione?

Per saper dire di no devo iniziare col capire cosa voglio io, quali sono i miei bisogni e le mie necessità, qual’è la mia direzione. Quando chiarisco queste cose di me, posso comprendere se e quanto la richiesta altrui mi distanzia da ciò che sono, da ciò che voglio e quanto essa mi “costerà”.
Allora la conoscenza di me stesso e la consapevolezza dei miei desideri potranno essere l’ispirazione per le mie scelte.

Può risultare molto impegnativo all’inizio, ma questo è un ottimo esercizio: quando ti viene chiesto qualcosa, rispondi in modo vago e prenditi il tempo per riflettere su ciò a cui devi rinunciare per esaudire quella richiesta. Quando avrai compreso in modo più approfondito le tue reali necessità e le motivazioni della tua scelta potrai rispondere in modo più autentico.

Le due parole più brevi e più antiche, sì e no, sono quelle che richiedono maggior riflessione. -Pitagora-

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La solitudine come risorsa

Ognuno di noi ha vissuto momenti di solitudine e non per tutti è stato un momento piacevole. È possibile vivere la solitudine come una risorsa?
Benché nella nostra società essa sia sovente vista di cattivo occhio, la solitudine vissuta come scelta può farci bene: favorisce la concentrazione, l’attenzione, la creatività e crea le condizioni per rientrare in contatto con se stessi.

La solitudine dà alla luce l’originale che c’è in noi. -Thomas Mann-

Arriva un momento nella vita di tutti nel quale si sente il bisogno di solitudine, un momento in cui è veramente necessario staccarsi dagli altri, dal lavoro e i suoi impegni, dai social e persino dalla famiglia e gli amici per approfondire la nostra relazione con il nostro sé interiore.

Quando si evita a ogni costo di ritrovarsi soli, si rinuncia all’opportunità di provare la solitudine: quel sublime stato in cui è possibile raccogliere le proprie idee, meditare, riflettere, creare e, in ultima analisi, dare senso e sostanza alla comunicazione. -Zygmunt Bauman-

Foto: Luis del Rio Camacho

La solitudine a volte fa paura, forse proprio per gli stessi motivi per i quali in altre occasioni la desideriamo, ossia ci consente di trascorrere del tempo con noi stessi. Essa ci dà l’opportunità di confrontarci con noi stessi; in quel silenzio, in quella pace, possiamo trovare le risposte alle domande che spesso ci poniamo…e forse sono proprio queste risposte a far paura, perché comporterebbero una presa di posizione nella direzione di un forte cambiamento che non si è ancora pronti ad affrontare…
Lontano da altre distrazioni, il silenzio e il contatto con noi stessi può portare pace ed aiutarci a ritrovare noi stessi, oppure può farci terribilmente paura.
Quando riusciamo a vivere questa condizione come una benedizione e non come una condanna, possiamo trarne tutti i benefici ed ecco per cosa può esserci utile:

1. Rallentare
Siamo tutti presi dal nostro fitto programma che spesso risulta eccessivamente stressante. Sommersi da mille stimoli, ci imponiamo corse quotidiane per portare a termine gli infiniti compiti che ci siamo preposti e anche le cose piacevoli rischiano di diventare spiacevoli inserite in questo contesto agonistico, caotico e ansiogeno…
Appare indispensabile staccare ogni tanto la spina per spegnere la tensione a cui ci sottoponiamo e in questo contesto la ricerca di solitudine prende il senso di un legittimo tentativo di fuga dalle situazioni di stress che non riusciamo a gestire.
Lontani così dagli impegni sociali e quotidiani possiamo rallentare il nostro ritmo e rilassare mente e corpo.

Amo le persone.
Amo la mia famiglia, i miei figli.
Ma dentro di me esiste un luogo nel quale vivo tutto solo, è lì che rigenero le fonti che non si esauriscono mai.
-Pearl Buck-

2. Ricaricarsi
Dedichiamo così tanto del nostro tempo all’esterno, altri altri, al lavoro che non siamo quasi più abituati a prenderci cura di noi stessi e dedicare del tempo a “sè” può essere molto rigenerante. Rallentare e allontanarsi temporaneamente dagli impegni esterni ci consente di riposare mente e corpo. Trovare il tempo per ricaricare le pile è una condizione indispensabile per ritrovare concentrazione e attenzione, ma anche l’energia fisica e mentale necessaria per affrontare meglio gli impegni e i cambiamenti.

3. Conoscersi
L’unico modo per conoscersi è passare del tempo con se stessi, lontano dalle distrazioni.
Nella solitaria e silenziosa relazione con noi stessi possiamo scoprire cose che non sappiamo: così si apre una finestra sulla nostra interiorità che ci consente di entrare in contatto con i nostri sentimenti più intimi, con i nostri bisogni e i nostri sogni.

Foto: Charlie Harutaka

4. Discernere
Quando ti privi di qualcosa hai la possibilità di renderti conto della sua importanza.
Nella solitudine abbiamo quindi la possibilità di fare chiarezza dentro noi stessi e distinguere tra ciò di cui abbiamo bisogno e le cose superflue, tra ciò che ci fa male e ciò che ci alimenta….
E questo atto di discernimento possiamo applicarlo a tutti gli ambiti della nostra vita.
Stando in solitudine, in assenza dell’altro, posso dare un nuovo valore all’amicizia, distinguendo le relazioni costruttive da quelle malsane: quando comprendiamo chi per noi ha davvero importanza, prendiamo consapevolezza delle persone che non ci fanno stare bene, o alle quali siamo legati non per piacere, ma per paura o “bisogno”. La solitudine diventa un passaggio obbligato per ritrovare le energie necessarie per interrompere ed uscire da siutazioni “sbagliate” e iniziare un cambiamento.

5. Meditare

Nel silenzio della stanza possiamo ascoltare il silenzio e in questo silenzio possono emergere le risposte.
Lontano da stimoli e distrazioni possiamo con maggiore facilità dedicarci alla nostra interiorità, alla nostra anima che parla sempre più piano rispetto all’esterno ed è quindi difficilmente udibile in contesti di “consapevolezza ordinaria”. La solitudine ci facilita il compito: posso cercare un posto quieto e dedicarmi a me, a quella parte ancora più intima di me stesso, al suono della mia anima.

Le grandi elevazioni dell’anima non sono possibili se non nella solitudine e nel silenzio. -Arturo Graf-

Vuoi qualche consiglio per imparare a meditare? Leggi questo articolo, può esserti utile.

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Ama i tuoi limiti

Ogni individuo, ogni pianta, ogni animale, ha solo uno scopo…realizzarsi per quel che è.
Una rosa, è una rosa. La rosa non ha nessuna intenzione di realizzarsi come canguro.
F. Perls

Foto: Kumiko Shimizu

Una cosa davvero difficile per ognuno di noi è ammettere di avere dei limiti.
Questa parola ci rimanda ad un confine che blocca un percorso verso una meta: il limite ci impedisce di andare oltre a dove siamo ora.
Attraverso l’esperienza impariamo a conoscere chi siamo e cosa possiamo fare: il gap tra ciò che “vorrei” e ciò che “sono” può essere piuttosto ampio e generare frustrazione. Sentire che il nostro agire è costretto genera un conflitto e un vissuto di sofferenza.

Ma saggiare i nostri limiti è assolutamente utile e sano: essi ci parlano di noi, ci insegnano chi siamo nella realtà.
Così come i limiti fisici che sperimentiamo da piccoli ci rivelano dove “finiamo” noi e inizia l’Altro, dandoci un confine che ci permette di identificarci con un corpo reale e non solo immaginato, i limiti “altri” ci riportano in contatto con chi siamo realmente, staccandoci, a volte in modo traumatico, da una falsa percezione mentale e immaginaria. Avvicinandoci via via a una percezione di noi stessi più “reale” abbiamo la possibilità di ridimensionare i nostri progetti e di scoprire e cimentarsi con mete che fanno parte di noi in modo più realistico.

Un percorso di cura non fa certo eccezione e il terapeuta, ancor più della vita stessa, ci propone e ripropone questi limiti al fine di integrarli e includerli nel quadro della nostra vita.
È molto difficile ammettere ciò che assieme al terapeuta abbiamo visto, tanto siamo abituati a schivare, evitare e dissimulare i nostri “limiti”: sia perché li neghiamo, oppure perché ce ne vergogniamo, tendiamo a nasconderli sotto il tappeto.
Ma perché ci risulta così arduo ammettere i nostri limiti? I motivi possono essere diversi…il costante confronto con gli altri che ci porta a voler essere diversi da ciò che siamo, il bisogno di dimostrare qualcosa a qualcuno allontanandoci da ciò che effettivamente vogliamo, pensare che debellare i propri limiti arrivando ad un’utopica perfezione sia la fonte della felicità, ecc.

…se solo potessimo imparare a sfuggire ciò che è doloroso, allora sì che saremmo felici!
È questo l’incolpevole, ingenuo equivoco che tutti noi condividiamo e che perpetua la nostra infelicità
Pema Chondron

In questa stessa logica il cambiamento viene spesso concepito come una guerra, una battaglia per debellare quella parte “negativa” di noi, combattere l’ansia, sconfiggere quella particolare caratteristica del proprio carattere che non ci piace…
Siamo abituati a seguire la via della “lotta”, dell’andare “contro” al presunto nemico, quella parte meno apprezzata di noi stessi, sia essa un limite emotivo o una corazza fisica.

Perseguiamo una errata direzione, conseguenza di una altrettanto errata visione del mondo in cui tutto è bianco, tutto è “bello”, tutto è felice, dimenticandoci di osservare la realtà delle cose, realtà interna ed esterna, ovvero la compresenza inevitabile di bianco e nero.
Solo com-prendendo ciò, arrendendosi alla dualità della vita possiamo perdonare le nostre zone di ombra per trascenderle e includerle all’interno del quadro della nostra vita.
Dobbiamo accettare di non essere perfetti, di non potere fare tutto: imparare a conoscere le vie giuste per noi, quelle che ci rendono felici, le strade che abbiamo iniziato a seguire partendo da una reale consapevolezza di noi stessi e delle motivazioni che ci muovono, una via che ci appartenga davvero e che possiamo percorrere con fiducia per la piena realizzazione di noi stessi.

È estremamente terapeutico imparare a stare in contatto anche con ciò che non ci piace, con ciò che non ci fa stare bene: restare invece che scappare di fronte ad un dolore fisico o psichico, addentrandoci in ciò che realmente siamo.
Accettare la nostra imperfezione è il primo passo per trascenderla ed includerla in una composizione di noi più articolata che ci consentirà di costruire una buona autostima: con sguardo trasparente ammettere la realtà e assumersi la responsabilità di ciò che siamo.
Cosa accadrebbe se capissi che il cambiamento che desideri per te diviene possibile solo se prima ti vedi con coraggio e ti accetti in modo incondizionato così come sei?
Praticare l’accettazione non è cosa facile, anche perché bisogna che l’accettazione sia reale e totale…non basta che io mi convinca razionalmente di accettarmi se poi alla prima occasione in cui mi confronto con un mio limite mi arrabbio con esso…
Una tecnica che ci può venire in aiuto è la meditazione: attraverso la pratica possiamo avvicinarci a noi stessi in modo genuino ed apprendere ad accoglierci in modo gentile e non giudicante.
È una pratica di accettazione in cui l’oggetto della meditazione sono io, nel qui ed ora, nella mia imperfetta totalità che attraverso la pratica meditativa posso esplorare con rispetto e amorevole compassione.
Pema Chodron, monaca buddhista, scrive a tal proposito: “nutrire gentilezza amorevole, MAITRI, verso se stessi (…) significa che dopo tutti questi anni, possiamo ancora essere arrabbiati, timidi, gelosi (…),il punto non è sforarsi di cambiare se stessi.
La pratica della meditazione (…) vuol dire fare amicizia con la persona che già si è”.

Se avete piacere di sperimentare la meditazione
qui trovate due meditazioni gratuite a vostra disposizione:

Meditazione sul Respiro

Meditazione con la Campana Tibetana

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Meditazione sul Respiro

Buongiorno,

in occasione del Corso di Meditazione che partirà stasera qui a Genova, condivido con voi una meditazione guidata, presente tra quelle che verranno insegnate, in cui la tecnica viene focalizzata sul respiro.

Buon ascolto e buona pratica.

Se sei interessato alla pratica della Meditazione, guarda qui se ci sono dei corsi attivi e iscriviti!

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Il ritmo della natura

Come raggiungere un traguardo?
Senza fretta, ma senza sosta.
Goethe

La fretta è un vizio prevalentemente occidentale, legato all’idea di produttività ed efficienza. Le antiche culture orientali insegnano invece a coltivare la lentezza, la consapevolezza e la pazienza, intesa come arte dell’attesa. Dopo queste mie vacanze, come sempre all’insegna della natura, cerco di tenere a mente un insight che ho avuto osservando le piante dell’orto di mio padre. Restare a guardare la terra che lentamente sa dare vita e nutrire, sostenuta dalle mani sapienti del contadino, a innumerevoli piante; ognuna con il suo ritmo giunge a maturazione al momento giusto e ci fa godere dei suoi frutti. Osservandolo cambiare nel corso del tempo si possono raccogliere anche frutti più profondi, insegnamenti che si possono metaforicamente applicare al nostro vivere quotidiano, come la cura, l’attesa, la fatica e la pazienza. Quando coltiviamo una pianta dobbiamo rispettare il suo ritmo: non tutti i momenti sono giusti per la sua semina, né per la concimazione… Con cautela possiamo stare ad osservare e capire: quando spunta il bocciolo possiamo osservarlo giorno dopo giorno crescere e sbocciare, diventare fiore e restando spettatori di questa crescita capiamo che ogni azione “in più” risulterebbe inutile se non addirittura nociva.

Le azioni in più sono quelle dettate dalla fretta, dall’ansia del frutto, dal voler rispondere ad un nostro bisogno anziché ascoltare e rispettare quello dell’altro, che in questo caso è la pianta. Lo stesso sguardo possiamo averlo verso noi stessi e le nostre azioni: facendo tabula rasa dei nostri bisogni ansiosi, troviamo il momento giusto e piantiamo il seme e prendendocene delicatamente cura, attendiamo che, con il suo ritmo, cresca.

Troppo spesso mettiamo davanti le nostre aspettative rispetto alla realtà e alla necessità del progetto: veniamo così travolti dall’ansia quando qualcosa non va come “avremmo voluto”, perdendo il contatto con il ritmo reale del processo e senza renderci conto che le nostre aspettative spesso non hanno nessuna base di realtà, ma sono create da nostre proiezioni mentali. Poi capita che magari da quel seme non nasce nulla, era malato oppure semplicemente abbiamo sbagliato qualcosa, capita…e allora provvederemo a riprovarci, ma a nulla servirebbe, nel frattempo, zappare ad oltranza o innaffiare in continuazione oppure concimare eccessivamente.

Lo stesso rispetto dovrebbe valere per noi e la nostra vita: dobbiamo osservarci come una pianta che cresce e non avere tutta quella fretta che ci caratterizza. Molte volte mi è capitato di rendermi conto della mancanza di contatto col processo, nel qui ed ora, ed una ridotta pazienza rispetto all’ottenimento di un risultato, DEL risultato. Perché, bada bene, il risultato deve corrispondere esattamente a ciò che mi ero prefigurato io… Ricerchiamo un risultato immediato, come se la natura e noi stessi rispettasse delle leggi immaginarie, frutto di un nostro “delirio di onnipotenza”. Quando iniziamo un progetto, un’azione nel mondo, ricerchiamo un risultato rapido e assolutamente in linea con le nostre aspettative, chiudendoci così all’opportunità di accettare qualcosa che vi si discosti…

La proiezione sul risultato, anziché il contatto nel qui ed ora col processo, genera una accelerazione interna, associata ad una scarsa consapevolezza.

Perché la lentezza è amica della consapevolezza… Ho quindi osservato sia in me che negli altri la fretta e l’impazienza di cui spesso diventiamo prigionieri. Le nostre regole (che diamo per ovvie, ma che sarebbe interessante mettere in discussione e chiedersi da dove saltino fuori…) devono essere rispettate: abbiamo regole per tutto, per il quando e il come dovremmo essere noi stessi, gli altri, la natura…

Se osserviamo la natura intorno a noi possiamo vedere come ogni pianta abbia un suo ritmo per crescere e se esso viene forzato, perde la sua energia. Invece di preoccuparci esclusivamente del risultato, coltiviamo il nostro progetto, diamogli i giusti ingredienti di cui ha bisogno, che a volte sono amore e attenzione più che azioni compulsive, e rispettando il suo ritmo potremo osservarlo mentre prenderà forma.